DOMANDA E RIPOSTA
by Franco Pratesi, 07.03.2013

ABSTRACT

This note deals with a little known booklet with a poem describing the rules of the Minchiate card game. It has first been published in the middle of the 18th century and then reprinted more than once in Florence, in the 19th century too. The author’s name is not present in this text. If he really was Pio Enea degli Obizzi, as somewhere suggested, the poem was composed around the middle of the 17th century, thus representing the first compilation known of the Minchiate rules for the version played four-handed between two pairs, which obtained an international diffusion. The full text of the poem is copied below in the Appendix. Particular attention has been dedicated to finding which were its editions and in which libraries they can still be found.


INTRODUZIONE

La domanda del titolo è una delle tante pubblicate a Firenze nel “Giornale di erudizione” alla fine dell’Ottocento. Per introdurre meglio l’argomento può servire un’occhiata a quella rivista letteraria. Una generazione prima, Firenze era stata la capitale del Regno d’Italia, sia pure per pochi anni. Per diversi secoli era stata in precedenza la capitale del granducato di Toscana, con una tradizione artistica e letteraria senza pari.
Anche alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo successivo, Firenze ebbe un ruolo notevole in campo artistico e letterario, rimanendo uno dei principali centri culturali italiani. Ciò si verificò anche nel settore editoriale, con la pubblicazione di libri e periodici che divennero famosi. Il “Giornale di erudizione” era pubblicato a Firenze, due o tre volte al mese, ma non aveva carattere locale e si rivolgeva agli eruditi e bibliofili di tutta la nazione.
Le Domande pubblicate nel Giornale ne costituivano un elemento fondamentale: un lettore aveva incontrato un problema per lui insolubile di ricerca bibliografica, letteraria, o scientifica e si rivolgeva a tutta l’élite culturale italiana per assistenza.
La domanda era pubblicata con un titolo che ne indicava chiaramente l’argomento. Di regola, nei numeri successivi della rivista, sempre sotto il medesimo titolo, apparivano le relative risposte: un erudito di un’altra città scriveva una nota più o meno estesa in cui documentava e discuteva i riferimenti che “risolvevano” il caso.
Effettivamente, le cose andavano proprio così e i quesiti posti trovavano una soluzione che era ovviamente di grande interesse per lo studioso che aveva posto la domanda, ma allo stesso tempo rappresentava un contributo culturale valido per la maggioranza dei lettori.
La Domanda di nostro interesse, non ebbe purtroppo risposta. Non si fece avanti nessuno, da nessuna città, per risolvere il caso. Evidentemente, si trattava di una questione molto difficile, perché fra i lettori si trovavano esperti di livello molto elevato, in ogni settore. Riproviamoci ora dopo un po’ di tempo: nel 1888 nacque il mio nonno paterno, ora il nonno sono io.
Qual era allora la questione, di nostro interesse, così complessa da rimanere senza risposta? La riproduco qui sotto per intero, perché vale la pena di discuterne a fondo.(1)

Giuoco delle minchiate. – Chi è l’autore di un capitolo relativo al giuoco delle minchiate che incomincia: «Poiché imparai delle minchiate il giuoco» ; e quante edizioni ne furono fatte ? Si potrebbe poi aver notizia di altri scritti di simil genere ? A. L.

Come si vede, più che di una domanda si tratta di più domande collegate: 1) chi fu l’autore, 2) quante edizioni furono stampate, 3) quali altri scritti del genere si conoscono.
Oggigiorno la ricerca bibliografica è diventata estremamente più facile in confronto a quei tempi, o anche solo in confronto con i “miei” tempi. Basta ticchettare un po’ sui tasti del computer e le notizie arrivano subito da tutte le principali librerie del mondo. Se non basta, si trovano senza indugi gli indirizzi dei bibliotecari e le notizie arrivano poco dopo, grazie alla loro abituale cortesia e alla posta elettronica.
Con questi aiuti, proverò allora a rispondere alle domande, ma a quelle devo aggiungerne un’altra, la numero zero, preliminare ma oggi divenuta necessaria: 0) di che Capitolo si tratta?

Il Capitolo

Il testo in questione è formato da un lungo componimento poetico in terza rima, e nell’edizione senza data, di cui ho una riproduzione sotto mano, è stampato su venti pagine, numerate da 3 a 22. Ogni pagina contiene sei terzine a rima alternata, eccetto la prima e l’ultima che hanno due terzine in meno; per chi volesse conoscere il numero totale di versi, posso aggiungere che si tratta di 349 endecasillabi in totale.
È un’opera che ha un’importanza fondamentale per la storia del gioco delle minchiate e delle sue regole, specialmente se si passa dalle date note per le sue edizioni a stampa alla probabile data di compilazione, ben addentro al XVII secolo.
L’inizio è molto chiaro e importante: dopo che l’autore ha imparato a giocare alle minchiate, tutti i giochi che faceva in precedenza non gli sono più piaciuti e ha quindi cercato con assiduità e costanza di farlo apprezzare anche in Lombardia. Non deve sorprendere troppo il fatto che sotto il nome di Lombardia si poteva intendere, come anche oggi piacerebbe a qualcuno, tutta o quasi l’Italia settentrionale. “E pure il fanno pochi in Lombardia” si può interpretare con il fatto che il gioco non solo aveva scarso seguito nella Repubblica veneta, dove molto probabilmente il Capitolo venne compilato, ma era poco praticato in tutta l’Italia settentrionale.
Invece di continuare a riassumere l’intero Capitolo, intendo riprodurlo per intero in Appendice e soffermarmi in seguito solo su alcune particolarità delle regole descritte e commentate in questo testo, per passare successivamente alla ricerca delle varie edizioni.

Le regole di gioco esposte nel Capitolo

Il Capitolo è stato scritto verso la metà del Seicento, secolo in cui si trova a competere, se così si può dire, solo con gli enigmi del Malatesti,(2) e soprattutto con le note di Paolo Minucci al Malmantile racquistato,(3) che però descrivono una variante diversa, quella del gioco a ognun per sé, che evidentemente era allora la forma più usata a Firenze, invece di quella a coppie che ebbe maggiore diffusione.
Anche il prezioso manoscritto di regole, compilato a Roma nel 1716 da Niccolò Onesti, trovato da Andrea Vitali,(4) trascritto per intero e ampiamente commentato da Girolamo Zorli,(5) il più antico con le regole di gioco diffuse internazionalmente, è con tutta probabilità più di mezzo secolo più tardo.
Il nostro Capitolo si rivolge a persone che non conoscono ancora gli elementi del gioco. Un commento al riguardo potrebbe essere che, come in molti regolamenti di gioco, rimangono dettagli che, senza altre indicazioni, richiederebbero ulteriori convenzioni e accordi fra giocatori per risolvere le inevitabili questioni che si incontrerebbero nel gioco effettivo di una partita.
Il primo accordo, semplice ma indispensabile, riguarda la posta in gioco. Infatti tutta la complessa gestione del punteggio può alla fine essere associata a piccole somme o a interi patrimoni, a seconda appunto di quale accordo preliminare stabilisce la corrispondenza fra punti e soldi.
La complessità del gioco deriva non solo dall’elevato numero di carte, ma soprattutto dal punteggio che si basa sull’accusa di particolari combinazioni di carte, o verzigole, (contate sia in base alla distribuzione delle carte all’inizio del gioco, sia scegliendole alla fine fra le carte vinte) e sulla differenza del punteggio fra le due coppie avversarie alla fine della partita. Insomma, la conquista di alcuni punti è dovuta ad una distribuzione fortunata delle carte, ma per avere un punteggio elevato è anche indispensabile giocare nel migliore dei modi, per conquistare le carte di valore e le loro combinazioni.
La mia prima impressione è stata che questo regolamento di gioco non sia sostanzialmente diverso da quanto conosciamo dai trattati a stampa e manoscritti del XVIII secolo. Ho chiesto ai principali esperti del gioco di segnalarmi eventuali punti di disaccordo o di particolare originalità, e non ho ricevuto segnalazioni di rilievo.
L’unica particolarità che mi è stata segnalata è la seguente: “una consuetudine che non trovo descritta altrove, quella cioè che permette al cartaio di poter dare direttamente al compagno le carte sotto l’alzata, purché meno di nove.”(6)
Di originale si può notare anche qualche osservazione di strategia di gioco, che infatti l’autore stesso indica come accorgimenti usati di persona e non ricavati da eventuali testi precedenti. Rimane comunque valida in assoluto la priorità temporale di queste regole, scritte prima di tutte le altre oggi conosciute (almeno se l’attribuzione corrente è giusta).

L’autore

In nessuna delle edizioni note si trova stampato il nome dell’autore. Tuttavia si legge in diverse occasioni che l’autore fu il marchese degli Obizzi.
Il marchese Pio Enea degli Obizzi viene solitamente indicato come Pio Enea II, per distinguerlo dal personaggio omonimo (1525-1589) che aveva costruito, sulle basi di edifici preesistenti, il castello di famiglia, dove il nostro autore nacque e trascorse la sua vita, il Castello del Cataio, a una dozzina di chilometri a sud di Padova.
Il Castello del Cataio non era un edificio ordinario e in seguito fu ancora ingrandito, comprese opere impegnative volute proprio dal nostro autore, fino a diventare poi una vera e propria reggia, usata come tale dagli arciduchi ereditari dell’Impero austro-ungarico.(7)
Il marchese Pio Enea è citato in alcune storie della letteratura italiana per i suoi scritti di teatro. Cenni biografici e sulla sua produzione letteraria non mancano neppure in wikipedia.(8) Dalla scheda del volume di Ferrara ricaviamo i seguenti dati essenziali: «1592-1674 - Letterato padovano, autore di drammi. Membro dell’Accademia degli Intrepidi col nome di “Rigenerato” e dell’Accademia dei Ricovrati».
Per quanto rigarda la sua appartenenza all’Accademia dei Ricovrati si può citare una raccolta delle sue poesie andata alle stampe proprio per volere dell’Accademia, con l’intenzione di dedicarla ai Signori Umoristi di Roma.(9) Nella presentazione, si legge un elogio che può interessare.

«Il Marchese Pio Enea degli Obizzi Cavaliere che la grandezza dei suoi Natali fregia con tutte le doti più singolari, nelle cui mani non invidia punto la spada davanti d’ogni più celebre penna, e le cui poetiche composizioni fan divedere, che il consorzio di Marte quanto si sian soavi, non paventan le Muse.»

Una conferma di quanto effettivamente il nostro autore unisse il talento petico e teatrale con quello della pratica delle armi si ritrova nella sua biografia scritta da Filippo Conti e copiata nell’Appendice 3. Ho tuttavia l’impressione che il Conti unisca nel suo testo ai meriti letterari di Pio Enea II alcuni di quelli militareschi di Pio Enea I. (All’epoca della plausibile composizione del Capitolo, la corte estense si era dovuta trasferire a Modena, mentre Ferrara era tornata alla diretta dipendenza del Papa.)
Citazioni delle sue opere teatrali si trovano anche in recenti studi pubblicati all’estero. Così, in uno si sottolinea il ruolo pionieristico delle sue messe in scena, con i canali di Venezia che in qualche modo si estendono dalla scena verso il pubblico grazie a due anziani che scendono dal palco versando acqua da vasi tenuti in braccio.(10) Viene anche sottolineato il suo ruolo pionieristico come uno fra i primi casi del passaggio dal teatro di corte al teatro per il pubblico.(11)
Maggiori dettagli e una ricca bibliografia si trovano in un contributo più recente di Antonella Pietrogrande. Sono solo tre pagine di libro e con illustrazioni, ma sono ricche di dettagli e permettono di farsi un’idea più precisa della personalità e delle opere del nostro autore. Si intravedono così i numerosi impegni di un letterato molto attivo, in stretta comunanza con gli ambienti di diverse corti dell’epoca. Fra l’altro destavano ammirazione i suoi ricevimenti nella fastosa dimora di famiglia e i suoi servizi presso le corti, anche per ambascerie politiche. Si sottolinea nahce il suo spirito imprenditoriale, che ce lo fa vedere come uno fra i primi esempi di vero e proprio impresario teatrale, capace di fondare nuovi teatri e nuove compagnie.(12)
Nelle enciclopedie e nei vari manuali di storia della letteratura italiana, anche fra i maggiori, il nostro autore è citato solo di sfuggita o manca addirittura; volendo, si potrebbe approfondirne la conoscenza sulla base di qualche trattazione dettagliata del teatro dell’epoca e consultando tutti i riferimenti elencati alla fine dello studio della Pietrogrande.
Dubito comunque che si possano reperire nella letteratura precise informazioni sul suo interesse verso il nostro specifico tema dei giochi di carte. Considerando però le sue frequentazioni e tenendo conto del fatto che il gioco delle minchiate stava diventando di moda internazionalmente negli strati più elevati della società, rimane chiarissimo il fatto che al nostro autore non mancarono certo le opportunità, sia per impararlo, sia per insegnarlo.

Le varie edizioni del Capitolo e dove si possono trovare

Se è vero, come pare proprio, che l’autore del Capitolo sia stato il marchese degli Obizzi, si potrebbe trovare qualche manoscritto del Capitolo, autografo o meno, scritto nel Seicento, o pubblicazioni a stampa del medesimo secolo. Invece le edizioni note cominciano dalla seconda metà del XVIII secolo. Esistono però anche edizioni senza data.
Il problema di attribuire una data convincente alle edizioni che ne sono prive è piuttosto rilevante. Se questo componimento poetico fu veramente scritto verso la metà del Seicento, rimane difficile da accettare il fatto che non se ne conoscono copie manoscritte o a stampa precedenti quella datata, pare, Livorno 1752.
Invece non solo non si conoscono esemplari precedenti, ma nemmeno se ne hanno notizie. Allora rimarrebbe comodo assegnare le copie senza data a qualche decennio prima del 1752, quanto più plausibilmente prima.
Da questa situazione di partenza, gli sviluppi hanno portato a conclusioni diverse da quanto auspicato. Le edizioni diverse note sono infatti solo tre.

1) “Il giuoco delle minchiate. Capitolo.” Livorno, Gio. Paolo Fantechi, 1752. In 16°, p. 22. Così è indicato al N. 47 della Bibliografia del Lensi, che poi commenta: «Capitolo in terza rima di ignoto autore, contiene le regole del giuoco delle minchiate, comincia: Poiché imparai delle minchiate il gioco.»(13)
Questa edizione è quella che riporta la data più antica, a nostra conoscenza. Non scrive però il Lensi dove abbia trovato un esemplare di quest’opera, o almeno un catalogo che ne riportava i dati, e nemmeno dove abbia letto la data e il tipografo.
Di questa edizione non sono riuscito a individuarne esemplari conservati in Italia; uno però è conservato a Oxford(14) e fu già citato da Michael Dummett.(15) Mi pare un po’ strano il fatto, che tale rimane però, che Dummett abbia utilizzato il testo disponibile nella “sua” Bodleian Library unicamente per un commento sui Ganellini, presenti qui solo per il termine Ganellino, usato per il numero Uno dei tarocchi.
Comunque, nel catalogo della Bodleiana i dati tipografici erano indicati fra parentesi, come se fossero in realtà assenti nell’opera e solo ricavati da qualche altra fonte. Mi sono allora rivolto anche ai bibliotecari di Oxford, che hanno cortesemente risposto alle mie domande.(16)

Il libro arrivò nella Bodleiana con il dono della ricca collezione Jessel. Frederick Henry Jessel (1859–1934), era un collezionista esperto che compilò (1905) una famosa bibliografia sulle carte da gioco. Probabilmente di sua mano è l’annotazione che questo libro fu stampato a Livotno nel 1752. Un’altra annotazione cita la bibliografia del Lensi che plausibilmente è all’origine della precedente. Non risultano altre possibili fonti a supporto.

Di questo testo furono stampate altre edizioni. Ne prendo ora in esame due che furono pubblicate senza data e luogo di stampa e che solo a seguito di confronti effettuati in queste ultime settimane sono risultate identiche all’esemplare di Oxford.

1b) “Il gioco delle minchiate capitolo.” 22 p. ; 12°.
Presente nella Biblioteca Ariostea di Ferrara. Questa edizione è l’unica a comparire nel grande catalogo SBN OPAC, aggiornato per tutte le biblioteche italiane.(17) Su questa ho avuto un utile scambio di corrispondenza con la bibliotecaria della Biblioteca Ariostea responsabile dei manoscritti e rari.(18)
Nell’esemplare della Biblioteca Ariostea esiste una nota manoscritta “Del canonico Pio Enea degli Obizzi”. In realtà che di un canonico si trattasse non è supportato da nessun indizio che si può trovare nelle storie del tempo.
Sempre a corredo dell’esemplare ferrarese viene riportato nelle indicazioni bibliografiche nel catalogo la citazione da un’opera manoscritta conservata in quella biblioteca: «L’autore Pio Enea degli Obizzi si ricava da G. Antonelli, Indicem operum ferrariensium scriptorum, 1834». (Questo uso dell’accusativo non me lo insegnarono a scuola, ma sono passati due terzi di secolo e posso averlo dimenticato.)

1c) Grazie ai controlli effettuati sulle copie, ho potuto appurare che l’edizione conservata a Ferrara è identica a una che avevo rintracciato a Firenze molti anni fa.(19) La copia conservata a Firenze non compare nel catalogo SBN OPAC, per il semplice fatto che non è ancora stata inserita nella catalogazione elettronica dei libri antichi conservati nelle biblioteca universitarie di Firenze.
Un timbro di appartenenza indica il Regio Istituto Superiore di Firenze e risale alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento. Dall’inventario dell’epoca sembra che appartenesse a un gruppo di libri donati dal Gabinetto botanico della Università, dove sarebbe arrivato come eredità di un donatore di cui non si è conservato il nome.(20)
Un particolare che potrebbe fornire ulteriori indicazioni si legge scritto a lapis nell’ultima pagina, semplicemente alcuni numeri: -.3.6. Credo che si tratti del prezzo dell’opuscolo nel tradizionale sistema L.s.d., tre soldi e mezzo insomma, ma non conosco abbastanza la variazione nel tempo di questi prezzi per dedurne una data in maniera sufficientemente affidabile

Mi sono chiesto se le due misteriose edizioni senza dati tipografici a mia conoscenza potevano essere le stesse dell’edizione livornese del 1752 conservata a Oxford ed il confronto ha confermato che si tratta effettivamente della medesima edizione.(16)

2) “Delle regole delle minchiate capitolo in terza rima: publicato per uso de’ dilettanti di detto gioco.” Nella stamperia di Giuseppe Allegrini, Firenze 1777. 20 pagine
Con la semplice guida di google-books ne ho trovato un solo esemplare, all’estero, nella biblioteca della Harvard University di Cambridge, Massachusetts.(21) In particolare, questo libro è presente nella Houghton Library e risulta donato alla biblioteca nel novembre 1927 dai figli di Charles Eliot Norton (1827-1908).(22)
Un altro esemplare, se non risultasse invece la medesima copia, era presente nella biblioteca del marchese Costabili di Ferrara e nel relativo catalogo compilato in occasione della vendita compare al N. 3494, con stampata accanto al titolo l’attribuzione a Pio Enea degli Obizzi.(23) Che compaia lì tale attribuzione non ci sorprende troppo, per le notizie che abbiamo da altre fonti, ma in questo caso l’editore inserisce preliminarmente un commento al riguardo che è interessante, ma nulla aggiunge sull’autore, come si può verificare nel testo integrale del suo Avviso, copiato qui sotto nella seconda appendice.

3) “Capitolo relativo al giuoco delle minchiate.” Firenze, nella Stamperia granducale, 1827. 22 p. 18 cm.
Anche questa edizione è presente nella Bibliografia di Alfredo Lensi già citata. È elencato come n. 23, con i dati: in -8, pp. 22, e il commento che rinvia all’altro: “Per la descrizione di questo opuscolo vedi l’edizione del 1752 al n. 47.”
Forse questa è l’edizione più difficile da trovare. Un esemplare è presente all’estero, nella Biblioteca Apostolica Vaticana.(24) Non ne ho chiesto notizie a quella biblioteca, e su questa edizione posso solo comunicare la segnalazione(25) di un esemplare in vendita presso gli antiquari Bado e Mart. Nella descrizione inserita nel loro catalogo “Edizioni pregiate” si legge: “Prima edizione. (…) Nessun esemplare censito in Iccu. Lensi n. 23.”
Mi sorprende il fatto di non averne trovate nessuna copia nelle biblioteche pubbliche italiane, e fiorentine in particolare. Se la Stamperia granducale entrava in azione direttamente, non lo faceva per un libro a tiratura estremamente limitata, o che non avrebbe avuto una diffusione sufficientemente ampia.

Importanza delle edizioni

Non è facile capire quanta diffusione abbia trovato il nostro Capitolo. A giudicare dalle copie conservate nelle biblioteche pubbliche, si direbbe che rimase del tutto ignoto o quasi. Va tuttavia considerato il tipo di pubblicazione, un opuscolo di piccole dimensioni e di sottile spessore, che facilmente sarebbe andato disperso. Si aggiunga a ciò l’argomento dei versi, che non poteva essere fra i più apprezzati dai bibliotecari, sia pubblici che privati.
Le due edizioni fiorentine, stampate a distanza di mezzo secolo, stanno a dimostrare che almeno a Firenze il Capitolo ebbe fortuna. Il fatto che i manuali sul gioco delle minchiate stampati a Firenze ebbero la loro prima edizione, e la compilazione stessa, in altre città, può far pensare che per un fiorentino non era sufficientemente stimolante compilare un trattato su un gioco ben noto in città, mentre a Roma e, come pare in questo caso, a Padova, poteva essere il caso di impegnarsi a scrivere per far meglio conoscere un gioco che non aveva una tradizione locale consolidata.
Nel caso del Capitolo, questa situazione locale è descritta in modo esplicito, insieme alla volontà di scrivere proprio per diffondere più ampiamente la conoscenza del gioco.
Come origine di scritti sulle Minchiate è nota Roma; questo testo deriverebbe invece da Padova, ma questo fatto non è difficile da accettare, anche perché l’autore afferma che localmente il gioco è poco noto. Tuttavia è il percorso successivo del Capitolo ad apparire sorprendente.
Chiara è solo l’utilità di stamparne copie a Firenze a fine Settecento e inizio Ottocento, quando sappiamo che il gioco era ancora effettivamente in uso. Ma come per arrivare a Firenze, sia passato dopo una probabile prima apparizione a Livorno, senza nessun preavviso, e senza apparentemente toccare Roma, rimane un mistero.

Gli scritti di simil genere

Per trovare scritti di genere simile, bisogna prima intendersi su cosa comprendere sotto quell’espressione. Si possono infatti cercare altri componimenti poetici con riferimenti alle minchiate, oppure manuali del gioco che di poetico non hanno più nulla.
Di opere che abbiano insieme caratteri di poesia e di manuale non ne conosco altre. Invece sono noti componimenti letterari con riferimenti alle minchiate, sia manuali del gioco. Non mi sembra il caso di dilungarmi su questi due argomenti, già abbastanza studiati.
Può comunque valere la pena di segnalare un paio di sedi dove è ancora possibile trovare la prima edizione del libro delle “Regole generali”.(26) Si tratta di un testo che ebbe evidentemente più fortuna di altri e fu ristampato più volte a Firenze, almeno negli anni 1781, 1807 e 1820, dopo le prime edizioni romane del 1728 e 1742. Si tratta in genere di edizioni di cui si trovano pochi esemplari nelle biblioteche pubbliche italiane.
La prima edizione del 1728 è ancora meno nota delle successive, ma risulta presente nella Biblioteca Giovardiana a Veroli;(27) un altro esemplare è conservato all’estero, nella Biblioteca del Nordiska Museet a Stoccolma.(28)

Conclusione

La Domanda sul gioco delle minchiate, pubblicata nel 1888 in una rivista per bibliofili e rimasta allora senza risposta, ha finalmente trovato una risposta, corredata da ulteriori informazioni al riguardo. Come spesso accade in questi casi, è tuttavia quasi impossibile essere del tutto esaurienti, ed è naturale che mentre si soddisfano alcune curiosità, altre se ne accendono.
L’auspicio è che le risposte presentate in questa nota possano stimolare altre ricerche, in grado di completare il quadro con altri esemplari delle edizioni note e, meglio ancora, con altre edizioni non ancora note, nonché con attribuzioni più sicure sull’autore e gli editori.


Appendice 1 (14.02.2013)

IL GIOCO
DELLE
MINCHIATE
CAPITOLO

(3) DELLE MINCHIATE
CAPITOLO.

Poiché imparai delle Minchiate il gioco,
Ogn’altro, il quale dilettommi in pria,
Più non mi piacque, o almen mi piacque poco.

E pure il fanno pochi in Lombardia;
Quindi, ch’ei fosse in auge anche fra noi,
Grande fu sempre la premura mia.

Questo è l’unico fine, ond’oggi poi
A descriver mi accinsi ‘l gioco raro,
E in versi, acciò la storia meno annoi.

Lo scrivo a chi nol sa, ben mi dichiaro;
Scrivo il più necessario documento,
E se basso è lo stil, sarà più chiaro.

(4) Dunque, Amico Lettore, il primo intento
Sia proccurare bastante cognizione
Delle Carte, che mancan tre di cento.

Se a primo aspetto qualche confusione
Vederne tante, e varie t’arrecasse,
Senti, e chiara n’avrai la divisione.

Vi sono Arie, Tarocchi, e Carte basse,
Dette Coppe, Baston, Dinari, e Spade;
N’ha delle sue quattordici ogni Classe.

L’Arie son cinque, se però non cade
Sotto tal nome il Matto, essendo quella
Carta d’inestimabil qualitade.

Son Trombe, Mondo, Sole, Luna, e Stella;
Le Trombe in primo grado, e sino al quinto
Va ogn’altra coll’istess’ordine anch’ella.

Trentacinque Tarocchi hai, e dipinto
Con diversa figura ognun si vede
Da progressiero numero distinto.

(5) Qualunque dei Tarocchi all’Arie cede,
Al Tarocco maggior cede il minore,
E al resto delle Carte esso precede.

Il Re all’altre Cartiglie è Superiore,
Poi la Regina, indi il Cavallo, e il Fante,
L’Asso, o il Dieci di tutte è l’inferiore.

Mi spiego, ed in ciò far sarò costante;
In Coppe, et in Dinari ‘l minor punto
Vince il maggior, che va nell’altre avante:

Aggiugnerò di più su tal’assunto,
Che il Matto mai non piglia, né all’opposto
E’ preso, come non vi fosse appunto.

De’ avvertirsi però, che presupposto
Non ti riesca coprir carte mai,
Sei a perdere il Matto allora esposto.

Dà al nemico una carta, se già n’hai,
Tosto che il Matto vuoi per altra usare,
Se nò, la devi dar, quando l’avrai.

(6) Ma questo, ed altro, che potrai notare,
Più che il mio dir, la prativca dimostra;
Or passiamo alla norma del giocare.

Alzar si dee pria di venir in giostra;
Chi scopre più fa insieme un giro, e poi
Si cangia, e alzando il Compagno si mostra.

Scieglier può il luogo, ed ai Rivali suoi,
Che dian le carte, se gli piace, addita;
Cammini il carro, or che ho attaccati i buoi.

Si sta due contro due, quattro in partita;
Il mazzo mischiar dee una volta ognuno,
Prima di poter dir, che l’è finita.

Si dian carte ventuna a ciascheduno,
Dieci la prima, e il resto l’altra volta,
Ma si scopre poi l’ultima a ciascuno.

Quelli, a’ quali minchiata si rivolta,
Ne marchino il valore a lor piacere,
Quando pari a’ nemici non si volta.

(7) Chi alza avverta non lasciar cadere
La prima carta, che o cattiva, o buona
S’uno, il qual gioca, la potrà vedere,

L’involontario error non si perdona,
E a lasciarla i nemici il dannan pronti,
Se fortuna minchiata non gli dona;

Perché, quando può alzar carta, che conti,
La ruba, ed altre ancor, che sianvi appresso;
Ma avverta, che altrettante ne rimonti.

Chi fa le carte ha il privilegio istesso;
Anzi ei ne gode un altro anche maggiore,
Che prendere dal mazzo è a lui permesso.

Si noti quindi per non far’ errore,
Che delle Carte fin che son voltate,
Deve segnare i punti ‘l giocatore:

Quelle, che in mazzo poi saran restate,
Che hanno valore, se si prenderanno,
Da chi mischia non ponno esser marcate.

(8) Se in alzar, o in voltar si troveranno
Sopra venti, quei pur potrai pigliare,
Benché a contar di più non gioveranno.

Alzando, al tuo Compagno puoi pur dare,
Senza veder, le carte, che sian sotto,
E poscia il mazzo agli occhi tuoi voltare.

Quello è un abuso, che fu già introdotto;
E pria d’alzare, dir bisogna: io do
Al Compagno una Carta, tre. tre, quattro, o otto;

Ma pià di nove dar non se ne può,
Acciò chi mischia dia l’altra di più,
Né di ciò addurti la ragione io sò.

Ove è il costume, insegnato mi fu,
E parmi cosa facil da comprendere;
Onde finiamla, e andiamo un poco in sù.

Oh a scartar sì, ch’è d’uopo bene attendere,
Né in questo si può dar legge sicura,
Ed è un punto difficile da intendere.

(9) Se di perder Tarocchi avrai paura,
Intera puoi scartare una sequenza,
E due ancora, se vìè maggior premura.

Veder prima si dee con diligenza,
Che la Folla del tutto, o quasi vuota
Sia della Classe, di che vuoi star senza.

Qual sia la Folla, o mio Lettor, qui nota;
Della copia di carte, ch’è rimasta
Sino a tredici, il nome si dinota:

Ma spesso del Compagno il gioco guasta
Ritener troppo di un colore istesso,
O dei tarocchi ancor più che non basta.

Lo scartarne alle volte ti è permesso,
Molto più se vuoi far caccia al nemico;
Tieni allora i minuti, e nol far spesso:

Mentre in quel solo caso ciò ti dico,
Che di fallj non hai necessità,
O un buon gioco accennar brami all’amico.

(109 Per verbum fallio qui s’intenderà
Mancanza di una Classe, che non hò
Pria di scartare, o poi non vi sarà:

Ma fallio allora fare non si può,
Quando di aver più carte di ventuna
Alcun per altrui sbaglio ritrovò.

Prevalgasi esso pur di tal fortuna
Col farsi, se ne ha d’uopo, una seconda,
E di quelle, che scarta, ne tenga una.

Di questa pure non sarà men tonda
La negligenza di dar carte meno
Del numero già detto, e le rifonda

Colui, che fé l’error, mischiando il pieno
Delle Tredici, quali a piacer chiede
Coperte l’altro, finché giuste sieno.

Regole queste son per chi s’avvede
Dell’error prima, che cominci il gioco;
Perciò in contar le carte si provede.

(11) Altrimenti all’emenda non v’è loco,
E se il fallo nascondere non sai,
Ogni cosa per te va allora a foco.

Le Verzigole sol, che accusate hai
Sin da principio, l’ultima, e le carte,
Che a’ nemici vincesti, conterai.

Dir qui’l peggio non posso, e in altra parte
Ad ognun sarà facile il capirlo,
Che attenzion sino al fine mi comparte.

Voglio però fra tanto ora avvertirlo,
Che accorgendosi a tempo dell’errore,
Se prima che si giochi saprà dirlo,

Di venti punti sarà vincitore
Per una carta, che ha di più, o che manchi,
Per l’altre in dieci l’util’ è minore.

T’avviso poi, che in guardar non ti stanchi
Quel, che mischia le carte, il qual potrebbe,
Tutte avendole in man, prender de’ granchi.

(12) Ogni minuzia in somma si dovrebbe
Ossservare cogli occhi, ed in memoria
Ficcarla, e allora ben si giocherebbe.

Oh quà sì non bisogna andare in gloria,
Anzi tutto il visibile notare,
Se nò il gioco diventa una baldoria.

Chi ha Verzigole osservi di schivare
Un abuso da molti già introdotto,
Che le accusano prima di scartare.

Fan Verzigola Un, Tredici, e Ventotto;
Un Matto, e Trombe; ed Uno, Due, e Tre;
E dal Tre fino al Cinque o sopra o sotto:

Il Dieci, Venti, Trenta, o pur se v’è
Con questi due la Tromba ancor di più,
Come si forma da tre, o quattro Re:

Salendo poscia dal ventotto in su
Si accusano tre carte di sequenza
E se crescon, si conta sempre più.

(13) Il Matto è carta di gran conseguenza,
Con qualunque Verzigola s’accusa,
Dandole cinque punti d’accrescenza.

Ma poiché (e può far danno) spesso s’usa
Dir, che s’hà il Matto ancor senz’accusarlo,
Farei pagare un resto a chi lo abusa;

E sembreriami bene a praticarlo
Con chi mostrar pur voglia o tutto, o parte
Del gioco, o in qualche modo palesarlo.

Si osservi poscia nel giocar le carte,
Che non solo nell’uso dei Tarocchi,
Ma delle basse ancor ci vuol grand’arte.

Coppe dirò, se di giocar mi tocchi;
Di dare il Re ch’il tiene è allor costretto,
Quando vi sia prima uno, il qual Tarocchi;

Ma senza questo non è già interdetto
Dare altra varta delcolore istesso
Del Re, che per salvarlo tieni stretto.

(14) Anzi pure in sua vece è ognor permesso
Di porre il Matto, che per ogni carta
Può farsi diventare arrosto, e alesso.

Nessun da questa legge si diparta,
E chi la nega il fa senza ragione,
Benché legge non sia di Roma, o Sparta.

Consiste la maggior circospezione
In romper le Verzigole contrarie,
E in far le sue, ma prima le più buone.

Con trentacinque, e Sol si chiudon l’Arie,
Col trenta, e trentatre romponsi i trenta,
E carta è il Ganellin delle primarie;

Onde in far l’un, ch’è il Ganellino, e il trenta,
Coi quali tre verzigole si fanno,
Deve una parte e l’altra stare attenta.

Senza il tre gli altri Papi non faranno
Verzigola giammai; quindi a far quello
Pria d’ogn’altro pensar tutti dovranno.

(15) Che se poi ti toccasse un gioco bello,
allora sì, che per far punti assai,
eregolarlo ben, ci vuol cervello.

Se un Papa, o un sopra venti giocherai,
O una carta accusata, è questo il segno,
Che tu hai le Trombe, o con gran gioco stai;

Quindi il Compagno tuo scorga il disegno,
C’hai di prendere in mezzo i tuoi rivali,
E se ha un buon gioco, ei pur ti dà sostegno.

Questo è quel gioco, che da tali, e quali
Di giro, e ben lo spiegano, si dice;
Ma non è per le teste d’Animali.

Oh quante volte, e quante va felice,
Perché non si tarocca un gioco brutto,
E quante un bello pur sen va infelice!

Chi vuol veder tal gioco ben condutto,
Deve arrischiare, e non giocar temendo,
Massime quando il trova ben costrutto.

(16) Qui t’avverto però, ch’io non intendo,
Che si debba azzardar senza ragione
Carta di conseguenza, anzi’l riprendo.

Metti a rischio le carte ancor più buone,
Quando t’avvedi, che all’opposta parte
Non dieno nel contar troppa esenzione.

Qui voglio ancor comunicarti un’arte
O conosciuta, o usata almen da pochi,
Che adopro nel giocar le basse carte.

Si ponga il caso, che una spada io giochi,
E col Tarocco quel, che a destra tengo,
E il mio compagno ancora vi s’infochi.

Le Spade ho da contar, che in mano io tengo,
Indi quelle, che sono in Folla ancora,
E quante n’abbia il terzo allor rinvengo;

Quel numero, che trovo esserne fuora
Franco giocar di seguito poss’io,
Così il compagno va sicuro allora.

(17) Che se dal conto fatto comprend’io,
Che più spade non ha chi è al lato manco,
Ne hò tosto d’avvertir l’Amico mio:

Con un Tarocco, o un’altra carta almanco,
Giocata a tempo prima della spada,
Ei capirà, che non può andar più franco.

Questa è l’astuta, e virtuosa strada,
Acciò il compagno tuo sotto il nemico
Non perda buone carte, e franco vada.

Un dei già detti segni dà al tuo amico,
Ma è meglio il primo, avanti usar la Classe,
Di cui tutta, o gran parte ti fa intrico.

Ci vuol giudizio nel giocar le basse,
E sarebbe l’Eroe delle Minchiate
Quello, che sempre ben le maneggiasse.

Se di tutte il Compagno ne ha scartate
Senza far fallio, oppure un solo, è segno,
Ch’ei vuol, che il rimanente gli leviate.

(18) E’ alle volte ridicolo l’impegno
Di non giocar nel fallio dei rivali,
E più se di far caccia avrai disegno.

Poiché il minor va scelto fra i due mali,
Ed è meglio restar senza cartiglia,
Per farsi nei Tarocchi agli altri eguali.

Se poi fin da principio se la piglia
Contro una parte l’altra, allor non vale
Questa legge, e il nemico si scompiglia;

Basta giocar la prima volta quale
Delle basse ti piaccia, e chi poi meglio
Sta, col Tarocco all’Oste sua prevale.

Se hai gioco cacciatore, allor sta sveglio
Sino alla fine, e i numeri minori
Sian per tal’uopo il più pregiato speglio.

Vedrai di buone carte perditori
Alla fine i nemici, se non prendi,
Fatte le tue gelose, e le migliori.

(19) Dal sin qui detto ciò, che puoi comprendi
Su i punti varj, o mio Lettore amico,
Che viè più dalla pratica gl’intendi.

Intorno ai Regi poi questo ti dico,
Che un giocator non dee molto stimarli,
E all’ultimo un Re in mani può fargli intrico,

Non intendo però, ch’abbi a gettarli,
O ch’essendo lo scarto ancor coperto,
Uno fuor di ragion debba giocarli;

Solo su tal verzigola l’avverto,
Acciò poi per un Re tutto il restante
Del suo gioco non mettasi in sconcerto.

Fa pure un grand’error quegli, che avanti
Di veder scarto, in quella Classe sorte
Con bassa, di chi ha‘l Re con carte tante;

Poiché il Compagno suo può anch’egli a sorte
Non aver d’esse, come chi ha scartato,
E perder sotto lui Carta, che importe.

(20) Che lo scarto in rigore esser svelato
De’ avanti, ch’alcun altro abbia risposto
Alla carta, che il primo avrà giocato.

Qualunque carta al giocator opposto
Tu vinci, quel valor, che serba ognuna,
Intrinseco di lei marcherai tosto.

Contan l’ultima, e l’Arie dieci l’una,
Tre i Papi, e l’altre tutte di contata
Montano sempre a cinque per ciascuna.

Il ventinove è carta di Minchiata,
Ma sol nella Verzigola si conta,
Fuor di quella non vien considerata.

Dopo il Gioco le carte ognun riconta;
Se ne devon aver quarantadue,
E quante un n’ha di più, tante ne monta.

Numerate le carte d’ambedue,
Si osservi ben fra quelle, se si trova
Verzigola, e ciascun segni le sue.

(21) E dopo questo il Conto si rinnova
Di quello, che ogni carta dice poi
Da se sola, e si fa una somma nuova.

Contati così ben i punti tuoi,
Tanti contra il rival segnar tu dei,
Quanti ne numerasti più de’ suoi.

Che se, giocando, sì felice sei
Di lasciar senza carte il tuo contrario,
Tu conti in esse quattrocento sei.

Ogni sessanta punti d’ordinario
Si marca un Resto, e in fine di partita
Si segna pur con uno di divario.

Un Resto poi quella moneta addita,
La qual pria ch’a giocare s’incominci,
Dev’esser dalle parti stabilita.

Se di rifiuto il giocator convinci,
Benché a rigor ei non dovria contare,
Ti dia solo il mal tolto, e un Resto vinci.

(22) Colui, che fe l’error, deve pagare,
Non il Compagno, il quale sente il danno
Nel detto caso, in cui non può contare.

I due nemici però eguale avranno,
E comune il vantaggio in questi eventi,
E quel, che fu minchione, abbia il malanno.

I già narrati, e simili accidenti
S’aggiustin sempre nell’espressa forma,
O facciansi altri patti antecedenti.

Quanto dissi finor basti per norma
Di un gioco tanto bello, e virtuoso,
Gioco, ch’a nessun altro si conforma,
Gioco in fine fra tutti il più gustoso.

IL FINE.

Nota. I numeri fra parentesi sono i numeri delle pagine. Non ho cambiato caratteri, eccetto l’uso di “é” al posto di “è” dove mi pareva più adatto.

Appendice 2 – Avviso dello Stampatore (Dall’edizione del 1777)

Tra i giochi che si sono inventati, dacché s’incominciò tre secoli addietro [in realtà sarebbero quattro. F.P.] a giocar con le carte, non vi è forse il più industrioso, cioè che dia campo all’arte e alla sottigliezza del giocatore, che quello delle Minchiate, dette anche Tarocchi e Germini dai buoni Scrittori della nostra Italiana favella. Per questo si è osservato che gli Oltramontani più spiritosi, allorché passano le Alpi per trattenersi alcun tempo in Italia, dimostrano un genio grande di apprenderlo, e vi s’impegnano alcuni sino a contender coi più veterani ed esperti. Mi sovvien di un personaggio di gran nascita, che dovette per ragion di ministero stanziarsi in queste contrade, il quale trovò tanto piacere di averlo imparato, che giunse anche a dire che lo trovava l’unico specifico per passar le veglie dell’inverno senza tedio. Avanza del tempo anche ai più aggravati d’occupazione e di studio; né si può sempre sostenere una compagnia per molte ore, col solo dialogo e con la Gazzetta del giorno. Qual più innocente trattenimento, che il far prova della propria industria e della sorte, colle Minchiate alla mano tra quattro amici? Ecco perché io mi sono indotto a pubblicare i presenti versi, i quali contengono tutte le regole, e quasi ancora tutte le finezze di un gioco così nobile e divertente. L’Autore di questo Capitolo, che credo Lombardo, non mi è noto; ma so benissimo che anche senza questa notizia sarà da chicchessia ammirata la facilità e l’esattezza del Legislatore Poeta, e potrà riguardarsi questa composizione come il Codice delle Minchiate.

Appendice 3 – Biografia da Filippo Conti

Pio Enea degli Obizi. Celebre Cavaliere ferrarese, versato nelle belle lettere e nella poesia, e di un genio squisito in tutto ciò che concerneva gli esercizj della più raffinata cavallerìa. Egli fece una luminosa comparsa nel secolo XVII, in cui si ammiravano con entusiasmo i Tornei figurati e gli spettacoli favolosi. Alcuni di questi furono dall’Obizzi dati alle stampe come il Ratto di Proserpina, l’Erminia e la Dafne, oltre un poema eroico, in ottava rima intitolato Atestio, ed una raccolta di poesie latine. Egli assunse sempre l’incarico di Direttore in tal genere di spettacoli presso la Corte d’Este non solo, ma eziandio presso le Corti straniere. L’Obizi era Maestro della nobile gioventù ferrarese ed anche di Principi nell’esercizio dell’armeggiare (dopo però il Principe Cibo, marito di Marfisa d’Este), e sebbene nelle grandi Azioni prodotte al Pubblico dalla sua fervida immaginativa campeggiasse il chimerico e l’inverisimile (gusto depravato di quell’epoca) nullameno era sempre cosa lodevole il rapporto che aveva simil genere di Rappresentazioni coll’esercizio di tutte le regole cavalleresche, rendendo per tal modo elastica e robusta la fibra della qualificata gioventù, anziché lasciarla inoperosa a languire nell’ozio molle di una vita spensierata e licenziosa. Questo generoso Cavaliere accrebbe con grandissime spese la deliziosa Signorìa del Cattajo, sette miglia distante da Padova, col renderla un oggetto di ammirazione e d’incanto agli occhi de’ Principi stessi che la visitavano. Eresse inoltre un Teatro in Ferrara, presso l’antica Chiesa di san Lorenzo, di poi distrutto da un furioso incendio nella notte dell’undici Giugno 1679; il quale per la sua architettura, vastità e simetria de’ palchi era, a quell’epoca, considerato uno de’ migliori d’Italia. Questo edifizio era stato innalzato con disegno e direzione del nostro rinomato architetto Giambattista Aleotti, detto l’Argenta. Il prelodato Marchese Pio Enea degli Obizzi cessò finalmene di vivere nella deliziosa sua Signorìa del Cattajo nel 1674, e venne tumulato in Padova nel Tempio di s. Antonio.

Footnotes:

  (1) Giornale di erudizione, Vol. I No. 9-10 (1888) 131.
  (2) La Sfinge enimmi del Sig. Antonio Malatesti. In questa nuova impressione aggiuntaci la terza parte con le Minchiate. Firenze 1683.
  (3) Malmantile racquistato. Poema di Perlone Zipoli con le note di Puccio Lamoni. Firenze 1688.
  (4) Letarot.it (Andre Vitali): Trattato del gioco delle Minchiate. Un documento sul gioco delle Minchiate del 1716.
  (5) Tretre.it (Girolamo Zorli): regole-delle-minchiate-di-niccolo-onesti-1716
  (6) Andrea Ricci, Comunicazione personale. Febbraio 2013.
  (7) Wikipedia: Castello del Catajo
  (8) Wikipedia.it: Pio Enea II Obizzi
  (9) Le poesie liriche del Sig. Marchese Pio Enea degli Obizzi. Nell’Accademia Ricovrata il Regenerato. Padova 1650.
(10) Julie Stone Peters, Theatre of the Book 1480-1880. Oxford 2000.
(11) M.-T. Bouquet-Boyer, L’opéra en Italie. in: Pierre Béhar. HelenWatanabe-O’Kelly, Spectaculum Europeum (1580-1750). Wiesbaden 1999.
(12) Antonella Pietrogrande, I Tornei padovani di Pio Enea degli Obizzi. In: Marcello Fagiolo (A cura di), Le capitali della festa. Vol. 2: L’Italia Settentrionale. Roma 2007.
(13) Alfredo Lensi, Bibliografia italiana dei giuochi di carte. Firenze 1892.
(14) Bodleian Libraries, Oxford : 013983413 Association copies – Jessel.
(15) Michael Dummett, The Game of Tarot, London 1980, p. 339.
(16) Francesca Galligan, Comunicazione personale. Febbraio 2013.
(17) Biblioteca comunale Ariostea, Ferrara : A 12.
(18) Mirna Bonazza, Comunicazioni personali. Febbraio 2013.
(19) Biblioteca umanistica dell’Università di Firenze: Misc. A. 300. 1.
(20) Carla Milloschi, Comunicazione personale. Febbraio 2013.
(21) Harvard University, Houghton Library, Cambridge, USA: IC7.Al525.777d.
(22) James Capobianco, Comunicazione personale. Febbraio 2013.
(23) Catalogue de la première partie de la bibliothèque de M. le Marquis Costabili de Ferrare. Bologne 1858.
(24) BAV: Stamp. Ferr.V.7286 (int.15)
(25) Sergio A. Bonanni, Comunicazione personale. Febbraio 2013.
(26) Regole generali del nobilissimo gioco delle minchiate : Con un modo breve, e facile per ben imparare a giocarlo. Roma : per Raffaelle Peveroni, 1728. 136 p. ; 12? (14 cm)
(27) Biblioteca Giovardiana, Veroli (FR): A-E12, F8.
(28) Nordiska Museet, Biblioteket, Uppställning: Bernström.



Castello del Catajo,
owned by the Obizzi family

Wikipedia: Obizzi (family)






Minchiate card, c. 1725 (Florence)
card Nr. XXXV, zodiac sign Gemini


Minchiate card, designed c. 1790 (Bologna)
card Nr. XXXV, zodiac sign Gemini




Minchiate card, designed c. 1825
card Nr. XXXV, zodiac sign Gemini


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Side bar pictures and text added by Lothar Teikemeier



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